DEMOCRAZIA[1]
“Come non vorrei essere uno schiavo, non
vorrei essere un padrone. Questo esprime la mia idea di democrazia.”
Abraham LincolnC’era qualcosa di epico nella folta
vegetazione di Montecristo, nelle strade strette sterrate, nel vento mite che
aleggiava lungo la costa. Ero seduto ancora sulla roccia quando da lontano vidi
arrivare una imbarcazione insolita per i nostri tempi; a prima occhiata, ne ero
sicuro, sembrava una barca dell’antica Grecia. Non mi sbagliavo: quando fu
vicina vidi con chiarezza che si trattava di una trireme ateniese, tipica
imbarcazione che i greci avevano utilizzato per la guerra, rinomata per
l’elevata manovrabilità e l’alta velocità di navigazione. Ricordavo da un esame
all’università che Tucidide l’aveva descritta come una nave in grado di
percorrere trecentoquaranta chilometri in sole ventiquattro ore ad una media di
7,6 nodi.
L’imbarcazione venne attraccata ma gli
uomini che remavano rimasero a bordo, erano tutti vestiti alla stessa maniera,
tranne uno, che ipotizzai esserne il condottiero. Lo riconobbi dal portamento. Si
trattava di colui di cui anche lo storico Tucidide aveva narrato le gesta:
l’ateniese Pericle.
Ero pronto alla sfida con me stesso, avevo
come faro il coraggio del Rinascimento ma in cuor mio ero teso. Stavo per
incontrare un personaggio di cui sapevo moltissimo, ne avevo letto a lungo, ma trovarselo
davanti era un’altra cosa. Pericle salì verso di me dalla stessa mulattiera da
cui eravamo passati prima. Incontrarlo era un grande privilegio ma anche una
grande responsabilità. Prima che giungesse a destinazione lessi la storia della
“sua” Atene tra le carte che mi aveva affidato Miror.
INCONTRO PRIMO: STORIA DI ATENE
Atene non fu sempre democratica. Prima di
giungere alla democrazia fu governata da re mitici, arconti a vita, di cui il
primo fu Teseo, leggendario fondatore della città e “civilizzatore delle genti”.
Una aristocrazia ristretta reggeva il governo fra l’XI e l’VIII secolo.
Nell’VIII secolo al posto dei re arconti a vita giunsero arconti decennali poi,
a partire dal 683 a.C. arconti annuali. Nel 636 Cilone provò ad instaurare una
tirannide, a testimonianza che spesso le crisi dell’aristocrazia lasciavano
spazio a tiranni, ma fallì per l’intervento degli Alcmeonidi, i quali lo
uccisero e con lui gli altri cospiratori rifugiatisi nel tempio di Atena. Per
tale azione pesò a lungo sugli Alcmeonidi la maledizione e l’accusa di
sacrilegio, in quanto a Cilone e ai suoi era stata fatta la promessa di avere
salva la vita in virtù della loro condizione sacra di supplici della divinità.
Significativa fu la legislazione di
Draconte (624- 620 a.C.), che introdusse l’uso della scrittura e sottrasse alla
pratica della vendetta privata della famiglia offesa la punizione dei delitti
di sangue. L’Atene predemocratica era governata da nove arconti ma il potere
effettivo risiedeva nell’Areopago, il consiglio aristocratico formato dagli
arconti usciti di carica, che resisterà quale ultima roccaforte del potere
aristocratico anche in piena democrazia.
Per il passaggio alla democrazia furono
basilari le riforme portate avanti da Solone, arconte nel 594-93 a.C. con il
compito di conciliatore e legislatore. Egli introdusse la Boulè (il
consiglio) dei Quattrocento, potenziò l’Ekklesia (assemblea dei
cittadini), istituì la Heliaia (tribunali composti da corti di giudici
popolari). Dopo Solone ebbero ruoli di primo piano Pisistrato e il tiranno
Ippia. Lo scontro decisivo per giungere alla democrazia avvenne nel 511/10 a.C.
tra Isagora, sostenitore di un regime aristocratico- oligarchico gradito agli
spartani, e Clistene, che ebbe la meglio, promotore di un profondo rinnovamento
politico-istituzionale che gli valse l’appoggio del popolo.
Atene attraversò un lungo percorso che
dalla monarchia passò all’aristocrazia, poi attraversò una tirannide e infine
giunse alla democrazia. Clistene ne fu il padre, tanto che si parla di
“democrazia clistenica”.
Adesso fermiamoci: stiamo per essere raggiunti
dall’illustre personaggio, di come funzionava la democrazia ad Atene dobbiamo
chiedere a lui. Pericle si presentava come un uomo sulla
sessantina, aveva una crespa barba grigia e portava un elmo a copertura di
quella che a descrizione di molti storici era stata una testa sproporzionata.
Indossava un lungo mantello bianco che lo avvolgeva completamente e ne
nascondeva le mani. Con regale compostezza mi strinse la mano e si sedette
accanto a me rimettendo le mani sotto il mantello. Era seduto con la schiena
dritta e mi osservava con circospezione. Dopo qualche istante, senza ancora
aver detto una parola, estrasse da sotto il mantello un grande coccio in
pietra, come quelli che ad Atene venivano usati per votare l’ostracismo, e me
lo consegnò.
“Iniziamo da questa lettura.” - Disse- “Prima
di dar vita al nostro dialogo è opportuno condividere il pensiero del saggio
Aristotele. Senza di lui non è possibile comprendere la democrazia. Ti prego di
leggerlo a voce alta.
Senza domandare alcunché eseguii:
“Aristotele divideva la democrazia in cinque tipologie. La democrazia
ugualitaria, nella quale poveri e ricchi senza eccezione partecipano al potere
su un piano di uguaglianza. La democrazia censitaria, nella quale le cariche ai
cittadini sono distribuite sulla base del censo. La democrazia di diritto,
nella quale tutti i cittadini possono accedere alle cariche senza alcuna
indagine preliminare sulla loro condizione di censo o di origine, ma è la legge
a dominare sovrana. La democrazia radicale o più elementare e diffusa, nella
quale chiunque, purché libero cittadino, può accedere alle cariche, ma è ancora
la legge a dominare sovrana. Ultimo e deteriorato tipo di democrazia è quello
nel quale il potere sovrano appartiene non alle leggi ma all’arbitrio della
massa popolare e dei demagoghi capaci di manovrarla. Là si governa non con le
leggi ma con i decreti delle assemblee popolari dominate dai demagoghi e i
magistrati perdono ogni autorità a causa dello strapotere delle assemblee.
Questo tipo di democrazia demagogica è simile alla tirannide, non ha nulla che
la possa definire una costituzione e neppure una democrazia. L’insolenza dei
demagoghi era, per Aristotele, la causa principale dei sovvertimenti delle
democrazie nelle città greche.”
Avevo davanti uno dei più importanti esseri
umani della storia. Era un’occasione straordinaria, irripetibile. Pensavo a
come rompere il ghiaccio, se dargli del lei o del voi, optai per il voi dal
momento che il lei era stata un’invenzione rinascimentale e Pericle era di un
periodo di gran lunga precedente. Fui sorpreso, a rompere gli indugi fu lui ed
in maniera veemente. Ed io, che pensavo di aver timore, tenni la conversazione
a viso aperto e senza avere paura delle mie opinioni. Fui davvero
rinascimentale come mi aveva chiesto Miror.
P (Pericle): “Il pensiero di Aristotele è
per sempre. Esiste forse ai giorni vostri un pensiero originale sulla
democrazia? Forse qualcuno ne ha scritto senza prendere spunto dalla sua
visione? L’umanità ha vissuto duemila anni invano. Bastava fermarsi alla mia
epoca, c’era già tutto il necessario per la pace, l’armonia, la libertà,
l’uguaglianza.” - Era fiero di quanto sosteneva. Ho sempre pensato che i grandi
dell’antica Grecia fossero un po’ arroganti e altezzosi come lo sono tanti
filosofi dei nostri tempi e Pericle me ne dava conferma. Non mi feci pregare e
saltai anch’io i convenevoli di rito.
V (Viaggiatore, ovvero io): “La democrazia
dei giorni nostri è più compiuta, si è adattata a stati più grandi, multietnici
e multiculturali. Ai vostri tempi era più semplice governare. Atene era
composta da alcune migliaia di persone di etnia omogenea.”
P: “Ciò non cambia la sostanza del
pensiero. Dopo di noi l’umanità si è persa dietro a religioni monoteiste, l’una
intollerante verso l’altra, che da sole hanno prodotto più guerre e morti di
quanto la nostra antichità si sia mai sognata. C’è voluto il Rinascimento per
ritrovare la nostra Grecia e infine l’Illuminismo per tradurla di nuovo in
fatti concreti.
V: “Sostenete quindi che la democrazia
ateniese fosse priva di difetti?” – Domandai dubbioso.
P: “No, era certamente perfettibile, ma per
farlo bastava poco tempo, non duemila anni. Sei la prima persona che gli dèi mi
fanno incontrare da dopo il trapasso. Da dove sono posso osservare quanto
accade nel mondo, ma non ho l’opportunità di parlare con qualcuno. Sei il mio
messaggero per il futuro.”
V: “Avete bisogno di me, quindi?”
P: “No, sei tu ad aver bisogno di me.”
Pericle parlava con voce tonante, ma adagio
e riusciva ad esprimere tanta forza oratoria senza gesticolare con le mani,
sempre avvolte sotto il mantello.
V: “Secondo Aristotele non sembra che la
democrazia ateniese fosse così perfetta.” - Glielo feci notare, sia pur con tono
ancora dimesso.
P: “Non lo era come non può esserlo alcuna
democrazia. Nella sua analisi Aristotele dice quello che l’americano Dewey
avrebbe ripetuto agli inizi del 1900 spacciandolo per suo. La democrazia è la
miglior forma di governo proprio perché è imperfetta e per questo tende sempre
a migliorarsi, a modificarsi, ma nel compiere la modifica non sempre si va in
meglio, c’è bisogno di continui interventi di pesi e contrappesi per evitare
derive.”
V: “Condivido.”
P: “Il fatto singolare è che l’umanità ci
abbia messo così tanto a capirlo. Per secoli è andata alla ricerca della
perfezione con le teocrazie, poi con le radici positiviste dei regimi
totalitari. Ci volevano tutte le guerre di religione, l’eccidio degli indiani
d’America, le innumerevoli guerre di conquista e, soprattutto, le due atroci
guerre mondiali, per comprenderlo? E il processo, da quel che vedo ai tuoi
tempi, non può dirsi compiuto.”
V: “Permettetemi di dissentire. Ai vostri
tempi imperversava la credulità, c’erano una infinità di dei in cui la gente
credeva, e la democrazia, diciamocelo, era ancora ad uno stato embrionale.” - Ora
ne sfidavo l’orgoglio.
P: “Non sai di cosa parli. Prendiamo ad
esempio il nostro sistema di governo che si basava su due camere distinte. Una,
il consiglio, era rappresentativo delle tribù che provenivano dalle diverse
regioni ed aveva il compito di preparare e controllare i lavori dell\'altra
camera, l\'assemblea dei cittadini, che fungeva da organo diretto e sovrano
deliberante. Ai giorni vostri non avete forse proposto un referendum con temi
similari? Noi c’eravamo arrivati duemilacinquecento anni prima. Degli dèi non
parliamo nemmeno. Nella mia Atene nessuno è mai stato ucciso per aver
professato il proprio credo religioso. Il politeismo era libero e tollerante,
non si uccideva in nome di dio.”
V: “Omero ci racconta ben altro.” - Lo
interruppi incalzante.
P: “Quelle di Omero erano favole e per di
più relative a molti anni prima di Atene democratica. Non deviare la
discussione, parliamo della mia democrazia.”
Feci un bel respiro e come fino a quel
momento non avevo fatto iniziai a guardarlo negli occhi, o meglio è ciò che mi
promisi di fare, non era facile essere sicuri di fronte ad una persona tanto
carismatica.
V: “Faccio come mi chiedete, rimango nel
vostro contesto. Cosa sapete dirmi delle critiche del “Vecchio Oligarca”?”
Con il termine “Vecchio Oligarca” si
intendeva lo scrittore di un trattato che prendeva il nome di Costituzione
degli ateniesi risalente presumibilmente al V secolo a.C. sulla cui
identità gli studiosi erano discordi. Per alcuni sarebbe stato Senofonte, per
altri Tucidide di Melesia, Crizia o Alcibiade. Gli studiosi dei nostri tempi,
per nulla convinti della sua identità, preferivano chiamarlo “Vecchio Oligarca”
e così feci anch’io. Lo scritto era una dura critica alla democrazia ateniese,
vista dalla prospettiva di un cittadino sostenitore dell’oligarchia.
Pericle accennò un sorriso, abbassò lo
sguardo e per la prima volta estrasse la mano destra da sotto il mantello per
porla sulla roccia, come per farsi perno. Quindi riprese a guardarmi negli
occhi con ancora più forza.
P: “Quell’uomo doveva morire dalla
gelosia.”
V: “Nessuno di noi ne conosce l’identità,
voi sapete chi fosse?”
P: “Non ha importanza.”
V: “Ne ha molta per noi.”
P: “Le sue critiche sono infondate. Si trattava
di un uomo escluso dai ruoli chiave che criticava Atene perché avrebbe voluto
essere lui al posto mio o di altri. Saperne il nome non farebbe alcuna
differenza. E in ogni caso non mi è concesso svelare ciò che la storia non ha
voluto dire.”
V: “Permettetemi di porvi le sue obiezioni,
sono molto attuali e possono valere per ogni tempo.”
P: “Anche se le considero inutili non mi
sottraggo al dialogo, il confronto è il sale delle democrazia.” - Accennò un
sorriso.
V: “Il Vecchio Oligarca affermava che nel
popolo c’è ignoranza, disordine e che gli importa poco del malgoverno. Cosa
rispondete?”
P: “Che nessuno può dire al popolo cosa sia
giusto o sbagliato per lui se non il popolo stesso.”
V: “Continuava nel dire che Atene consentiva
a schiavi e meteci di essere furfanti perché ne aveva bisogno per la grande quantità
di mestieri che essi esercitavano umilmente e per la flotta”.
P: “In democrazia ognuno ha un ruolo. Tutti
sono importanti ed ogni lavoro ha la sua utilità. Ad Atene nessuno poteva
permettersi di denigrare la dignità altrui.”
V: “Questo in teoria, ma in pratica era
davvero così? Il Vecchio Oligarca proseguiva col dire che ad Atene consiglio ed
assemblea potevano essere facilmente corrotti e che era esorbitante la quantità
dei processi da svolgere e il numero delle feste celebrate, più numerose che in
qualunque altra città. Insomma, sembra la descrizione della nostrana Grande
Bellezza!” - Mi vennero in mente gli occhi disincantati di Servillo nel film di
Sorrentino.
P: “La democrazia ha i suoi difetti, ma è
il sistema che più garantisce i diritti di ogni singola persona. Sistemi
considerati più efficienti, dove a decidere sono pochi senza alcuna
legittimazione, possono dirsi meglio della democrazia? Un sistema va valutato a
priori, cioè prima ancora di entrare a farne parte. Un attimo prima di essere
concepito, senza sapere in quale famiglia andrai a nascere, preferiresti farlo
in una società democratica o oligarchica?”
V: “Non mi rispondete nel merito. C’era o
no corruzione ad Atene?”
P: “Certo, ma era limitata, e comunque non
con me.” – Lo disse con fierezza.
V: “Il vecchio oligarca, quindi, sia pur in
parte, aveva ragione.” - Lo ripresi.
P: “Se il suo obiettivo era quello di
denigrare la democrazia, di ragioni non ne aveva alcuna. È forse preferibile un
sistema dove comandano pochi, anche se senza corruzione (e questo è tutto da
dimostrare) piuttosto che un sistema dove tutti hanno voce in capitolo ma vi è
anche corruzione? Va inoltre detto che la democrazia può correggersi, quindi
lavorare per limitare o estirpare la corruzione, cosa che un totalitarismo o
un’oligarchia non sono in grado di fare.”
V: “Egli vi tacciava anche di non rispettare
i patti e le alleanze e di non permettere che in teatro si parlasse male del
popolo ma solo dei ricchi e dei nobili.”
P: “Da noi ricchi e nobili erano parte del
popolo e nei teatri è sempre andato in scena di tutto. Io stesso sono stato
talvolta citato, sulla mia persona e su quella della mia cara Aspasia sono
soventi girate calunnie.” - Nel pronunciare il nome di Aspasia i suoi occhi si
fecero malinconici.
V: “Non tutti però erano uguali agli altri.
L’Areopago permaneva anche in democrazia.”
P: “Con il tempo perse la sua forza, era un
organo di forma. In stati come l’Inghilterra dei tuoi tempi, da tutti ritenuta
una grande democrazia, c’è ancora la monarchia e persino la Camera dei Lord.
Qualche imperfezione formale concedila anche a noi.” - Aveva una risposta per
tutto, ma io non intendevo fermarmi.
V: “Non solo, il Vecchio Oligarca vi
accusava di imperialismo affermando che il dominio del mare da parte di Atene era
causa della sua prepotenza sugli alleati, di usurpato benessere e di
imbarbarimento dei costumi.”
P: “Questa è un’altra storia. La democrazia
per affermare se stessa ha bisogno di proteggersi, di tutelarsi dagli attacchi
degli stati non democratici. La forza di Atene non era a scopo espansionistico,
ma difensivo, per affermare il suo orgoglio democratico, renderlo grande, farlo
conoscere al mondo. Se fossimo stati democratici ma deboli militarmente le altre
città ci avrebbero spazzato via e nessuno avrebbe preso in considerazione il
nostro sistema.”
V: “Dalla Storia siete ricordato come uno
dei più grandi statisti di tutti i tempi. Gli stessi vostri contemporanei perlopiù
vi elogiavano, anche se più di uno lasciava intendere come con voi la
democrazia si fosse trasformata nel governo del primo cittadino. Tucidide, che
di voi ha trascritto il memorabile discorso agli ateniesi, ha scritto- ripresi
a leggere le pagine di Miror: “Per tutto il tempo in cui fu a capo della città,
in periodo di pace, con moderazione la resse, con sicurezza la custodì, e sotto
di lui divenne grandissima. Egli, molto influente per prestigio e per capacità
di giudizio, manifestamente immune da corruzione e venalità, reggeva il popolo
nella libertà, e non si faceva guidare da quello, ma era piuttosto lui a
guidarlo. E siccome aveva acquistato il potere non per mezzo di illeciti, non
parlava per compiacere il popolo, ma, per il prestigio di cui godeva, lo contraddiceva
fino alla collera. Dunque, nella parola era una democrazia, di fatto un potere
personale esercitato dal primo cittadino.”[1]
“Sono vere le sue parole?” - Gli chiesi con
viva curiosità.
P: “Non sta a me dare un giudizio storico
sulla mia persona, altri lo hanno fatto e altri ancora lo faranno. La
democrazia è fatta da esseri umani, è un bellissimo e perfettibile involucro
nel quale inserire umanità. L’umanità, come la democrazia che dell’umanità è prodotto,
può tendere maggiormente verso il personalismo, l’azione forte e diretta,
oppure vivere fasi di indecisione e indeterminatezza. A garantire che la
democrazia non sfoci mai in una oligarchia o in una dittatura ci sono le regole
di fondo. Le persone forti non possono mai spaventare una democrazia, se essa
ha basi solide è sempre più forte di un solo uomo. Con me Atene fu grande,
conquistò spazio, produsse ricchezza, incentivò sempre più partecipazione dei
cittadini alla cosa pubblica. Dopo di me, e già poco tempo prima che morissi,
visse una fase di decadenza. Ma Pericle è esistito perché è esistita Atene
democratica, a cui il mondo intero deve solo rendere grazie.” - Ora il suo tono
era quasi solenne.
V: “C’era anche chi vi accusava di aver
avvantaggiato una corte di privilegiati, dalla vostra compagna Aspasia al
fidato architetto Fidia.”
P: “Sono tutte fandonie!” - Alzò la voce- “Con
Fidia ho dato spazio al genio. Esiste forse un’opera la cui magnificenza sia
paragonabile al Partenone?”
V: “In qualcosa, voi, avrete pur sbagliato?”
– Alzai sopracciglia e spalle.
P: “C’è solo una cosa che se vivessi di
nuovo non rifarei; dovevo uscire prima di scena. Prima che la peste ci colpisse
e che il malcontento dilagasse. Dovevo avere la forza di staccarmi da ciò che
amavo troppo: la mia Atene.”
Nel frattempo, era tramontato il sole e la
visuale dell’orizzonte si era fatta oscura. Udii che i componenti della nave
iniziavano a spazientirsi anche se cercavano di non darlo a vedere.
V: “Ci sono ancora tre cose che da voi devo
assolutamente sapere” - ripresi affrettando il parlare- “e per domandarvele
prendo di nuovo spunto da pensatori dei vostri tempi. Alcuni vi hanno accusato
di essere un demagogo, noi diremmo un populista, di incarnare per lungo tempo
quella degenerazione della democrazia che Aristotele ha definito “demagogica”. È
una valutazione che corrisponde a verità?”
P: “Io sono stato primo tra i pari, niente
di più. Il mio ruolo è sempre derivato dal consenso popolare, in democrazia
governa chi ha consenso. Penso di essere stato quanto di più lontano dal demagogo.
Governavo con misura, senza mai alzare troppo la voce, con buonsenso e
fermezza. Se un governante incarna con saggezza i desideri e le aspirazioni del
popolo, ne ascolta con puntualità le richieste e per esso si dona
completamente, è egli un populista, come direste voi, o uno statista, come
diremmo forse entrambi?” - Si stava, chiaramente, definendo uno statista.
V: “La risposta la dà la storia.”
P: “Esattamente.”
V: “Seconda cosa, la democrazia diretta.
All’inizio del nostro dialogo me l’avete presentata come la miglior forma di
governo possibile, da esportare ed attuare ovunque, ma è davvero così? Non
pensate che sul grande numero e per popolazioni “complesse” sia di difficile
attuazione?”
P: “Un governante che non è orgoglioso
della sua città non può rendere orgogliosi i cittadini. La forza di un sistema
di governo risiede anche nella capacità di presentarlo all’esterno con
fierezza. Quindi, per essere più precisi, la democrazia diretta è la miglior
forma di governo della mia epoca, senza alcuna discussione. Per la vostra rischia
di essere un’illusione, di trasformarsi in un populismo dove le persone pensano
di contare ma in realtà a decidere sono pochi o uno soltanto. Ma non ci vuole
molto a riproporre lo spirito di Atene nel tuo secolo. Bisogna che le
convinzioni di fondo che ci appartenevano si applichino con pienezza alla
democrazia rappresentativa, e lì avrete l’Atene del nuovo millennio.” - La
forza con cui pronunciava la parola Atene mi ricordava il tono cui con De
Gaulle diceva France.
V: “Anche quando ammettete qualche difetto,
alla fine l’amore per la democrazia ateniese prevale su tutto il resto, come
quando, di fronte ad una guerra che non finiva più, pronunciaste alla città
quel memorabile discorso. Tucidide ce lo ha riportato ma alcuni credono lo
abbia modificato o travisato.” – Ne sfidavo di nuovo l’orgoglio.
P: “Tucidide nello scrivere aveva uno stile
compassato, distaccato, senza alcuna enfasi. Io in quella occasione, anche se
mantenni comunque un contegno adeguato, fui più enfatico di sempre. Dovevo
tenere compatto il popolo di fronte ad uno dei momenti più difficili della sua
storia e affermare la grandezza della democrazia ateniese. Quanto lo storico ha
riportato corrisponde a verità, sono tutte parole mie!” - Andava davvero fiero di
quel discorso.
V: “Vorrei sentirle dalle mie orecchie,
sarebbe un privilegio straordinario!” - Non potevo farmi sfuggire quell’occasione.
Pericle staccò per un attimo gli occhi dai
miei, si toccò la barba, tossì per schiarirsi la voce e si alzò in piedi. Le
mani erano sempre coperte dal mantello. Alzò la testa, esternò in fuori il
petto ed iniziò a declamare.
P: “Noi disponiamo di una forma di governo
che non guarda con invidia le costituzioni dei vicini, e non solo non imitiamo
altri, ma anzi siamo noi stessi modello. Quanto al nome, essa è chiamata
democrazia, per il fatto d’essere amministrata non nell’interesse di pochi ma
nell’interesse dei più. Di fronte alle leggi, nelle controversie private, tutti
sono uguali. Secondo la considerazione di cui uno gode, perché si distingue in
qualche campo, non tanto per il suo partito quanto per il suo merito, uno è
preferito per le cariche pubbliche. Né d’altra parte la povertà, se uno è in
grado di fare qualcosa di utile per la città, è di impedimento a causa della
oscurità della condizione sociale. Il nostro comportamento di cittadini è
improntato alla libertà sia nella vita pubblica sia nella condotta quotidiana. Noi
che serenamente trattiamo i nostri affari privati, quando trattiamo gli affari
pubblici siamo terrorizzati di comportarci illegalmente. Siamo obbedienti a
quanti si succedono al governo ed alle leggi, e soprattutto a quelle che sono
poste a tutela di chi subisce ingiustizia e a quelle che, pur non essendo
scritte, per comune consenso portano vergogna a chi non le rispetta.
Inoltre, abbiamo procurato al nostro
spirito in gran numero le occasioni di sollievo dalle fatiche, avendo
l’abitudine di celebrare agoni e feste religiose per tutto l’anno e di disporre
arredi privati di buon gusto, il cui godimento quotidiano allontana il dolore.
Per la grandezza della nostra città, qui giungono da tutta la terra prodotti di
ogni tipo. Noi amiamo il bello, ma con misura: amiamo sapienza, ma senza
mollezza. Usiamo la ricchezza più per l’opportunità che offre all’azione che
per vanto di parola, e non è vergognoso il riconoscere la povertà, ma più
vergognoso è non adoperarsi per fuggirla. Le stesse persone da noi si curano
nello stesso tempo dei propri interessi e degli affari della città, e gli altri
che si dedicano ad attività lavorative conoscono alla perfezione le questioni
della città. Infatti, siamo i soli a considerare chi non partecipi alla vita
pubblica non uno che ama la tranquillità ma uno utile. Io dico insomma che la
nostra città intera è ammaestramento dell’Ellade. Noi abbiamo costretto ogni
mare e ogni terra a diventare accessibili alla nostra audacia. Per una tale
città, dunque, questi uomini sono morti combattendo valorosamente. La terra
intera è la tomba degli uomini illustri.”[2]
Nel concludere l’appassionato discorso
versò qualche lacrima di commozione. Gli dèi gli concessero per l’occasione un
carisma ed una forza intatti, come se di fronte a lui ci fossero stati ancora
tutti gli ateniesi costernati di fronte ai caduti della guerra del Peloponneso.
Secondo Tucidide Pericle pronunciò
quell’epitaffio nel 431 a.C. quando la guerra stava già devastando la città e
la stessa democrazia decantata viveva una fase di profonda crisi. Il discorso
era insieme un’esaltazione e un rimpianto per un modello di città- stato che
vedeva il tramonto. Lo statista pronunciava quelle parole essendo consapevole
della decadenza oppure, come spesso ricorre in chi è stato grande, esprimeva nostalgia
per un tempo passato ma dal quale non riusciva, o non voleva, staccarsi?
Pericle era statista fino alla fine oppure viveva l’autunno della democrazia
ateniese come gli uomini del XIV secolo vivevano l’autunno del Medioevo?[3]
Probabilmente entrambe le cose e di fronte a me avevo lacrime a dimostrarlo, un
viso non più giovane, consumato da mille battaglie, ma sempre fiero di se
stesso e della propria città. Il discorso di Pericle agli ateniesi non era
perciò il manifesto di quanto Atene era, o era stata, bensì cosa Atene avrebbe
dovuto essere; l’ideale più alto di democrazia. Retorica da demagogo o alta
moralità da statista? Forse entrambe. In lui risiedeva un’intrigante ambiguità
della democrazia, che il tempo e il rispetto della figura non mi permettevano di
indagare oltre.
Ormai era notte e Montecristo venne
illuminata della luna. Faceva freddo e anche Pericle mostrava i primi brividi
sulle gambe appena scoperte. Prima di andarsene si ricompose il mantello, quel
poco che si era scomposto nel declamare, e lanciò un’occhiata verso la nave per
avvisare della ripartenza i suoi compagni di viaggio. Mi strinse la mano e se
ne andò, salutando a voce alta l’isola:
P: “Salve a te, Artemisia!” Prima di
chiamarsi Montecristo in età classica l’isola veniva chiamata con quel nome.
Io, nel freddo della sera, rimasi da solo a
riflettere. Abbassai lo sguardo un istante e quando lo rialzai vidi sulla
roccia davanti a me Miror.
“Cosa
porti con te di Pericle?” – Aveva uno sguardo interrogativo.
“Ad
ora il freddo della sera.” - Risposi sorridendo.
“Voltati”
- disse serio.
Alle mie spalle, alla base della parete
rocciosa, ardeva un fuoco scoppiettante.
“Scrivilo qua cosa pensi e poi gettala nel fuoco. È un rito iniziatico
per il viaggio.”
Mi porse una pergamena e una penna. Lì
impressi quanto di Pericle mi portavo dietro.
“La democrazia, proprio perché imperfetta,
tende sempre a migliorarsi e per questo è la miglior forma di governo
possibile. La democrazia diretta però funziona solo per città piccole e
culturalmente omogenee, per la nostra società complessa e globale è solo
un’illusione che sfocia nel dominio dei demagoghi sulle folle. Per noi la sola
forma di governo adeguata è la democrazia rappresentativa che, per quanti
difetti abbia, è l’unica che garantisce ad ognuno di poter esprimere l’essenza
di cittadino attivo. La democrazia vive fasi alterne, a seconda dei contesti
storici e degli uomini che la interpretano. Se vi sono uomini o donne
carismatici non necessariamente sfociano nel populismo o, peggio ancora,
nell’autoritarismo, anzi, se sono animati dai giusti ideali e godono del
sostegno del popolo, possono essere grandi statisti in grado di far vivere alla
democrazia i momenti più alti. I populismi e gli autoritarismi non si evitano
impedendo a figure carismatiche di guidare i governi, bensì fondando la democrazia
su regole solide che nessuno possa stravolgere. Non devono esserci
fraintendimenti: modificare non è stravolgere. La stessa Atene modificò
gradualmente le proprie regole, migliorando l’efficienza della propria
democrazia fino a giungere, con Pericle, al suo massimo splendore. Uno
splendore che, però, sapeva alla fine di dorata decadenza.”
Iniziavo davvero ad essere stanco.
Voltandomi vidi che Miror mi aveva preparato un pasto da consumare ed un posto
per dormire. Dopo aver mangiato decisi subito di coricarmi, l’indomani mi avrebbe
atteso chissà quale personaggio, non prima però che la mia guida mi salutasse
con un pensiero sul senso del viaggio che Dumas fa dire a Edmond Dantes:
“Viaggiare significa vivere in tutta la pienezza del termine; è dimenticare il
passato e l’avvenire per il presente; è respirare completamente, godere di
tutto, impadronirsi della creazione come di una cosa che ti appartiene, è
cercare nella terra miniere d’oro che nessuno ha scavato, nell’aria meraviglie
che nessuno ha visto, è passare accanto alla folla e raccogliere nell’erba le perle
e i diamanti che essa, ignorante e distratta, ha scambiato per fiocchi di neve
e gocce di rugiada.”[4]
[1] B. Virgilio, Atene. Le
radici della democrazia, Pisa, Clueb, 1994, pp. 86-87
[2] B. Virgilio, Atene. Le
radici della democrazia, Pisa, Clueb, 1994, pp. 81-83
[3] In Autunno del
Medioevo Huizinga racconta di come le corti tardo medioevali, permeate da
sogni cavallereschi, non volessero arrendersi al giungere dei tempi
rinascimentali. Di fatto vivevano nell’illusione di qualcosa che già non c’era
più.