Introduzione
L’Unità d’Italia del 1861 avvenne
attraverso fini operazioni politiche, grazie a strategiche azioni militari, a
interessi incrociati e coincidenti di dinastie e patrioti. Anche il caso e la
fortuna fecero il loro, ma fu realizzata e vissuta intimamente da una parte
consistente della popolazione grazie al processo di nazionalizzazione delle
masse[1] che
si compì in Europa dal finire del XVIII secolo.
In epoca napoleonica non esisteva una
comune identità italiana, non esisteva una nazione italiana e gli stati della
Penisola erano di natura dinastica/ ereditaria, divisi ed in contrasto tra
loro.
La necessità di una nazione italiana iniziò
a prendere campo in seguito alla Rivoluzione francese, con il radicarsi del
concetto di nuova politica, vale a
dire l’idea che la sovranità non dovesse più appartenere ad un re che la
esercitava dall’alto verso il basso ma che fosse prerogativa delle masse tramite
l’espressione della volontà generale teorizzata da J.J. Rousseau.[2]
Masse e volontà generale trovarono la sintesi nel concetto di nazione, che da
quel momento in avanti assunse un profondo significato politico e culturale. La
nazione era composta da individui accomunati dalla discendenza di sangue, dalla
lingua, dalla cultura e dal territorio.
Al concetto di nuova politica si accompagnò quello di estetica della politica, un modo tramite il quale i politici
potevano catturare il consenso delle masse facendo leva sull’universo delle
emozioni. In Italia, così come nel resto d’Europa, la nazionalizzazione delle
masse prese forma tramite pamphlet, stampe, opere musicali, teatrali,
monumenti, celebrazioni, feste popolari, e vi presero parte i più influenti personaggi
pubblici. Si trattò di un processo di massa, meno influente nelle campagne, che
vide nelle aree urbanizzate, nelle città universitarie, il suo centro
propulsivo. Scrive Alberto Mario Banti: “Nell’arco di tempo che va dal 1815 al
1861 una gran parte dell’opinione colta, e anche una parte significativa delle
classi popolari urbane, viene convinta della bontà dell’idea nazionale.”[3]
La nazione, per esistere e compattare chi
ne faceva parte, aveva bisogno di una identità comune, di precisi confini, e di
essere quindi vissuta come una comunità di discendenza. Miti e leggende, storie
di antenati nazionali, assunsero il ruolo di esempi di un passato glorioso da
emulare nel presente. Il movimento che più di ogni altro incarnò questo spirito
fu il Romanticismo, che si servì del Medioevo per trasformare la storia in
lingua viva capace di incidere sulla realtà. In Inghilterra la penna di Sir
Walter Scott portò sulla scena i cavalieri della tavola rotonda con il “Return
to Camelot” di cui narra Marc Girouard.[4] In Germania le gesta di
Arminio il Cheruscio e dei principi medievali assunsero un ruolo dirimente
nella costruzione di un’identità comune. In Italia il neomedievalismo, come
spiega Duccio Balestracci nel saggio Medioevo
e Risorgimento[5], fu alla base dell’invenzione
dell’identità nazionale. In esso i miti furono molti, tra cui quello di Dante
Alighieri, ma forse il mito per eccellenza, come ci dice anche Mario Fubini nel
saggio Un mito del Risorgimento: la Lega
lombarda[6], fu rappresentato
dalla Lega lombarda che nel 1176 aveva sconfitto Federico Barbarossa nella
battaglia di Legnano. I lombardi facevano al caso italiano più di Roma, più del
Rinascimento, perché agli occhi dei patrioti avevano vissuto una situazione
simile a quella che nell’Ottocento si stava verificando contro l’Austria.
Mito e realtà si fondevano nella
costruzione dell’identità nazionale; un processo che iniziava a prendere corpo
sul finire del Settecento.
Il
Triennio repubblicano e l’epoca napoleonica[7]
Sulla scia della Rivoluzione francese nascevano
in Italia le “Repubbliche sorelle”, ispirate dai nuovi principi rivoluzionari
ma sottoposte al potere dei comandanti militari. Dopo il successo dell’Armata
d’Italia comandata da Napoleone Bonaparte, al nord nel 1797 si formarono la
Repubblica Cispadana e poi Cisalpina e la Ligure; al centro-sud nel 1798 la
Repubblica Romana e nel 1799 la Repubblica Napoletana.
Il 7 gennaio 1797, a Reggio Emilia,
all’interno della Repubblica Cispadana, Giuseppe Compagnoni, intellettuale e
attivista, propose per primo l’adozione di una bandiera nazionale verde, bianca
e rossa, in quella che sarebbe stata ribattezzata “Sala del Tricolore”.
Il decreto di adozione recitava:
“Giuseppe Compagnoni fa mozione che si
renda Universale lo Stendardo o Bandiera Cispadana di tre colori, Verde, Bianco
e Rosso e che questi tre colori si usino anche nella Coccarda Cispadana, la
quale debba portarsi da tutti.”[8]
In quel periodo si distinse la figura di
Filippo Buonarroti, trentacinquenne toscano di nobili origini ma di idee giacobine,
il quale nel 1796 scriveva una delle prime proposte di unità nazionale:
“Non vediamo l’ora di arrivare al momento
felice in cui vedremo la nostra patria libera! E soprattutto che le frivole
distinzioni d’essere nati a Napoli, a Milano, a Torino spariscano per sempre
tra i Patrioti. Noi siamo tutti di uno stesso paese d’una stessa patria. Gli
italiani sono tutti fratelli.”[9]
L’offensiva austro-russa del 1799 decretò
la fine di queste esperienze, travolte anche dalle insorgenze contadine. Venne
poi l’età del dominio napoleonico in Europa, quindi anche in Italia,
comunemente inquadrata tra il 1800 e il 1815, anni di prime speranze unitarie.
Nel 1800 Napoleone, che aveva chiuso la
Rivoluzione francese con un colpo di Stato militare, riconquistò il controllo dell’Italia
settentrionale. Nel 1806 il “leone di Corsica” si assicurò anche il controllo
del Regno di Napoli, retto da Giuseppe Bonaparte, cui successe nel 1808
Gioacchino Murat. Tranne le isole, tutta la Penisola era unita sotto un’unica
autorità, quella dell’imperatore. Dopo la caduta di Napoleone, crollò il
sistema degli Stati che gravitavano attorno all’impero francese. Le grandi
potenze vincitrici sulla Francia, riunite nel 1814-15 nel Congresso di Vienna,
riportarono sul trono le precedenti dinastie assolutiste.
La
Restaurazione inquieta
Al periodo napoleonico seguì un’epoca di
restaurazione, a cui però si accompagnarono le prime rivoluzioni, un insieme di
avvenimenti che andavano dal 1816 al 1846. Nel luglio 1820, sulla scia della
cosiddetta “rivoluzione di Cadice”, l’ammutinamento degli ufficiali spagnoli
che ottenne una Costituzione per la Spagna, anche nel Regno delle Due Sicilie
scoppiarono i primi moti insurrezionali, organizzati da ufficiali murattiani e
dalla nascente Carboneria. Nel marzo 1821 anche il Piemonte venne scosso da un
moto carbonaro. L’intervento dell’Austria, sostenuto dalle grandi potenze, fu
determinante per sconfiggere i regimi costituzionali. Molti patrioti troveranno
scampo all’estero, in Spagna e in Grecia, dove continueranno la lotta contro
l’assolutismo.
Mentre in Francia era caduta la dinastia
borbonica, sostituita dalla più liberale monarchia di Luigi Filippo, l’Italia
centrale, Ducato di Modena e domini pontifici, venivano attraversati da un’ondata
di moti insurrezionali. L’intervento austriaco ristabilì nuovamente lo status
quo. Nel 1831 Carlo Alberto, esponente della famiglia Savoia, successe a
Carlo Felice come re di Sardegna. Il nuovo sovrano, che regnerà fino al 1849,
anno della sua morte, nel 1848 darà i natali allo “Statuto Albertino”, su cui
il Regno d’Italia fonderà il proprio ordinamento, sostanzialmente, fino
all’avvento della Repubblica (anche lo stesso fascismo avrebbe fondato il
sistema dittatoriale senza abolire lo Statuto Albertino).
Immaginare
e progettare la nazione
Dal 1820 al 1847 prese progressivamente
corpo l’idea dell’Italia unita così come la immaginavano a progettavano gli
intellettuali, alle cui idee si ispirarono la gran parte dei moti
insurrezionali.
Un giovane carbonaro genovese, Giuseppe
Mazzini, durante l’esilio a Marsiglia fondò la Giovine Italia, un’organizzazione politica con un programma per
un’Italia unita e repubblicana. Dall’estero egli organizzò alcuni tentativi
insurrezionali (Piemonte 1833, Genova e Savoia 1834), che vennero però scoperti
dalla polizia sabauda e repressi nel sangue.
Mazzini è una delle figure maggiormente
iconiche del Risorgimento e per descriverne la personalità, con la quale ben si
qualifica il suo operato politico, riportiamo quanto ne scrisse Aleksander Herzen,
grande intellettuale russo che lo incontrò personalmente più volte:
“Mazzini si levò in piedi e, guardandomi
dritto in faccia con i suoi occhi penetranti, mi tese amichevolmente entrambe
le mani. Persino in Italia è difficile incontrare una testa tanto elegante nella
sua gravità, così rigorosamente classica. A tratti l’espressione del viso era
dura e arcigna, ma subito si addolciva e si rischiarava. Un pensiero attivo,
concentrato sfolgorava nei suoi occhi mesti; in essi e nelle rughe della fronte
v’erano una volontà e una pertinacia enormi. In ogni suo lineamento erano
visibili le tracce di antiche preoccupazioni, di notti insonni, di burrasche
affrontate, di violente passioni, o meglio, di una forte passione, e v’era
anche qualcosa di fanatico, forse di ascetico.”[10]
Nel 1834 Mazzini fondò la Giovine Europa,
vale a dire un movimento politico che si poneva l’obiettivo di creare un
ordinamento federativo dei democratici europei sotto un’unica direzione.
Furono numerosi gli attivisti, gli uomini
di lettere e d’arte, che svolsero un ruolo importante sia nei passaggi politici
che nella definizione dell’identità nazionale. Vale la pena citare Silvio
Pellico, esule e prigioniero nel carcere dello Spielberg, la cui esperienza è
impressa nel testo Le mie prigioni.
Carlo Cattaneo, probabilmente il più “europeista” e federalista degli attivisti
dell’epoca; Massimo D’Azeglio, politico di punta del Piemonte sabaudo. Giovanni
Berchet, poeta che nella romanza Le
Fantasie fissò forse più di chiunque altro il mito della Lega lombarda nell’immaginario
patriottico. Francesco Hayez, pittore romantico de Il bacio e de I vespri
siciliani; Amos Cassioli, pittore senese. Certamente Alessandro Manzoni,
celeberrimo autore de I promessi sposti e
Marzo 1821. Proprio nella rinomata
poesia, scritta probabilmente in occasione dell’insurrezione piemontese del
1821, risaltavano versi che ben rappresentavano il discorso nazionale del
sacrificio e martirio per la patria, raccontato e vissuto come una vera e
propria resurrezione:
“Oh giornate del nostro riscatto! / Oh
dolente per sempre colui/ Che da lunge, dal labbro d’altrui/ Come un uomo
straniero, le udrà! / Che a’ suoi figli narrandole un giorno/ Dovrà dir
sospirando: io non c’era;/ Che la santa vittrice bandiera/ Salutata quel dì non
avrà.”[11]
Tanti altri andrebbero menzionati, credo
però che non ci si possa dimenticare Cristina Trivulzio di Belgioioso, colei
che Arrigo Petacco ha definito «La principessa del nord», una donna che, tra le
molte cose di cui fu protagonista, ospitò la gran parte dei patrioti in esilio
presso i propri “salotti” di Parigi.
Nel 1843 l’abate piemontese Vincenzo
Gioberti, in esilio a Bruxelles, pubblicò il testo Del primato morale e civile degli italiani. L’opera era un
manifesto del neoguelfismo, un’ipotesi politica che aspirava a realizzare una
confederazione degli stati italiani sotto la guida del Papa. Diventava perciò
lingua viva la rivalutazione storiografica del papato che nel primo Ottocento
avevano svolto intellettuali come Cesare Balbo, Carlo Botta e Alessandro Manzoni.
Gioberti suscitò molto entusiasmo, perché offriva un programma politico ai
liberali che non si riconoscevano nel modello rivoluzionario mazziniano ma
neppure accettavano lo status quo. Egli parlava di un’Italia unita nel nome
della religione cattolica:
“In questa Italia reale, che abita e vive e
si distingue dagli altri popoli, io veggo che la religione, non solo occupa un
grandissimo luogo, come accade a tutte, ma un luogo unico; onde ella merita di
essere chiamata la nazione religiosa per eccellenza.”[12]
Nel 1844 due giovani fratelli, affiliati
mazziniani, Attilio ed Emilio Bandiera, tentarono la strada insurrezionale nel
Meridione d’Italia, ma la spedizione fallì e si risolse con la loro
fucilazione, avvenuta a Cosenza il 25 luglio.
Nel 1846 il conclave elesse al soglio
pontificio Giovanni Maria Mastai Ferretti, che assunse il nome pontificale di
Pio IX. Il nuovo Papa, che si riteneva essere animato da simpatie liberali,
accese le speranze dei neoguelfi di vedere realizzato il disegno di Gioberti.
1848-49:
la Rivoluzione
“Evviva Romilli! A morte i tedeschi”[13]
gridavano gli studenti milanesi per le strade della città all’alba dell’8
dicembre 1847. Bartolomeo Romilli, appena insediatosi al Duomo, portava con sé
entusiasmi e speranze trascinate dal neoguelfismo sull’onda dell’elezione di
Pio IX. In molti, dopo aver vissuto la restaurazione, sognavano di vivere una
stagione di risveglio sotto la guida del Papa liberale, che l’austriaco
Metternich definì «la cosa più inaudita che si potrebbe pensare!»[14]. In
Europa divamparono i tumulti, in Italia Ferdinando II, Leopoldo II, Pio IX e
Carlo Alberto di Savoia concessero costituzioni liberali. Proprio a Milano, tra
il 18 e il 22 marzo 1848, ebbero luogo le “Cinque giornate”, un’insurrezione
armata che liberò temporaneamente la città dal dominio austriaco, preludio
all’inizio della Prima guerra d’indipendenza che si svolse tra il 23 marzo 1848
e il 24 marzo 1849 sotto la guida di Carlo Alberto. Il sovrano di Sardegna,
approfittando della debolezza degli austriaci in ritirata da Milano, dichiarò
loro guerra. L’esercito piemontese invase la Lombardia con l’obiettivo di
liberare dall’Austria tutta l’Italia settentrionale ma anche per evitare che si
formassero governi repubblicani. Anche a Venezia esplose la ribellione popolare
contro l’impero.
Tuttavia, il conflitto si risolse a favore
degli austriaci. Pio IX, disattendendo le speranze suscitate nei liberali dalla
sua elezione, si dissociò dalla guerra e Ferdinando II, prima uscì dal conflitto,
poi pose fine con la repressione al ‘48 napoletano. Tra il 22 e il 27 luglio
’48 i piemontesi vennero battuti a Custoza e si ritirarono, in conseguenza di
ciò Milano tornò agli austriaci.
Venne l’ora, sia pur breve, dei democratici
al potere a Roma e in Toscana, da cui i sovrani erano fuggiti. Proprio dopo i
moti del 1848-49 Mazzini fu a capo della Repubblica Romana, insieme ad Aurelio
Saffi e Carlo Armellini, ma l’esperienza durò poco, in quanto venne soppressa
dalla reazione francese già nello stesso ’49. Nella difesa della seconda Repubblica
Romana, il 6 luglio 1849, perse la vita il giovane Goffredo Mameli, autore
delle parole del Canto degli italiani,
che poi diventerà l’Inno nazionale dell’Italia Unita.
A Venezia resistette la Repubblica.
Nel ’49 in Piemonte il governo democratico
riprese la guerra all’Austria, subendo però una rapida sconfitta. Carlo Alberto
abdicò così in favore di Vittorio Emanuele II. Roma venne espugnata dai
francesi, i quali restituirono il potere temporale a Pio IX. Anche Brescia e
Venezia si dovettero piegare, dopo una strenua resistenza, al ritorno degli austriaci.
Giuseppe Garibaldi, eroe dei due mondi,
interprete di quel romanticismo dell’azione che lo avrebbe reso una delle
personalità più popolari, e anche idealizzate, del suo secolo, visse nel ’48- ’49
un periodo di grande popolarità, grazie all’ardore e alle capacità strategiche
mostrate nelle diverse battaglie a cui prese parte. Proprio nel 1848 egli
pronunciò a Bergamo uno dei suoi discorsi più carismatici, tra le altre cose
conferma di quel mito della Lega lombarda del quale abbiamo parlato sopra, di
cui riportiamo un estratto:
“Che i generosi delle città, dei borghi,
delle vallate e dei monti ripeteranno l’eco della crociata italiana, dello
sterminio straniero; ognuno, cercando attorno di sé, incontrerà un’arma, un
ferro per difendere la bella terra che lo ha nutrito e cresciuto. Bergamo sarà
il Pontida della generazione presente e Dio vi condurrà a Legnano.”[15]
Dal
1850 al 1859: dopo la rivoluzione
Il Regno di Sardegna, unico stato italiano
ad aver conservato le istituzioni rappresentative e la libertà di stampa,
attirò decine di migliaia di esuli politici da tutta l’Italia. Prima con
Massimo d’Azeglio, poi con Camillo Benso, Conte di Cavour, si avviò un processo
di consolidamento dello Stato liberale, che passò attraverso una laicizzazione
delle istituzioni non priva di contrasti. Nel febbraio 1852 nacque il così
detto “connubio”, un accordo tra le forze politiche di centrodestra, guidate da
Cavour, e quelle di centrosinistra, guidate da Urbano Rattazzi, per garantire
al governo la base parlamentare necessaria a contenere nei limiti istituzionali
il potere della Corona, procedere sulla via delle riforme e riprendere una
politica volta all’unificazione nazionale.
L’accordo tra le grandi potenze che aveva
retto dal 1814 in poi si spezzò con la guerra di Crimea tenutasi tra il 1853 e
il 1856, dove l’espansionismo russo offrì l’occasione a Napoleone III di
intraprendere una nuova guerra. In questo contesto si inserì il disegno
diplomatico di Cavour, che puntava ad elevare il Regno di Sardegna nel gioco
delle alleanze tra le potenze d’Europa. Durante la Conferenza di pace di
Parigi, lo statista piemontese riuscì a portare al centro dell’attenzione
internazionale la questione italiana.
Cavour era un abile mediatore, che più
volte negli anni aveva dato prova della sua capacità politica. Ne erano sovente
esempi i suoi discorsi in parlamento, di cui, a titolo esemplificativo,
riportiamo un pezzo. Era il 5 febbraio 1855 e il Conte esprimeva la sua visione
su ciò che giovava all’Italia:
“L’esperienza degli anni scorsi e degli
scorsi secoli ha dimostrato quanto poco abbiano all’Italia giovato le congiure,
le trame, le rivoluzioni ed i moti incomposti (…) Io credo che la principale condizione
pel miglioramento delle sorti d’Italia, quella che sovrasta a tutte le altre,
si è di rialzare la sua reputazione, di far sì che tutti i popoli del mondo, e
governanti e governati rendano giustizia alle sue qualità. E perciò due cose
sono necessarie: primo, di provare all’Europa che l’Italia ha senno civile
abbastanza per governarsi regolarmente, per reggersi a libertà, che essa è in
condizioni di assumere le forme di governo le più perfette che si conoscano;
secondariamente, che il suo valore militare è pari a quello degli avi suoi.”[16]
I successi internazionali e il credito che
iniziava a circondare il Piemonte mettevano sempre più in crisi democratici e
repubblicani, divisi e incerti. La stella di Mazzini perse credito a causa del
fallimento di un moto insurrezionale a Genova, congiunto con il disastro della
spedizione organizzata nel 1857 da Carlo Pisacane, che morì a Sapri tentando di
sollevare la popolazione locale contro i Borbone. Pisacane, ex ufficiale
borbonico, nel frattempo passato a convinzioni socialiste, rappresentava l’idealtipo
di uomo disposto a sacrificarsi per l’obiettivo da raggiungere, quel martirio
per la patria che egli espresse nell’ultimo scritto prima di perdere la vita:
“Se giungo sul luogo dello sbarco, che sarà
Sapri, nel principato citeriore, io crederò aver ottenuto un grande successo
personale, dovessi pur lasciar la vita sul palco. Semplice individuo,
quantunque sia sostenuto da un numero assai grande di uomini generosi, io non
posso che ciò fare, e lo faccio (…) Io non ho che la mia vita da sacrificare
per quello scopo ed in questo sacrifizio non esito punto.”[17]
Nell’agosto dello stesso anno a Torino
venne fondata la Società nazionale italiana, per iniziativa del veneziano
Daniele Manin e del siciliano Giuseppe La Farina, che diventò il punto di riferimento
dei democratici che accettarono di collaborare con il Piemonte per unire
l’Italia.
Il 10 gennaio 1858 Felice Orsini,
rivoluzionario e scrittore di appartenenza anticlericale e mazziniana, attentò,
senza successo, alla vita di Napoleone III. L’imperatore, determinato a
stringere accordi con i movimenti nazionali per destabilizzare un’Europa che
ancora faceva perno sull’Austria e ricostituire l’egemonia francese sul
continente, incontrò Cavour a Plombières il 21 luglio. I due siglarono lì un’alleanza
segreta in funzione antiaustriaca.
1859:
la Seconda guerra di indipendenza
Gennaio-aprile.
Il parlamento
piemontese aprì le proprie sessioni il 10 di gennaio, introdotto da un discorso
di Re Vittorio Emanuele, nel quale il sovrano poneva lo stato sabaudo come guida
dell’unità nazionale, non senza tener fede agli accordi presi con Napoleone
III. Egli diceva di ascoltare il grido di dolore che proveniva da tutta la
Penisola:
“L’orizzonte in mezzo a cui sorge il nuovo
anno non è pienamente sereno; ciò nondimeno vi accingerete con la consueta
alacrità ai vostri lavori parlamentari. Confortati dall’esperienza del passato,
andiamo risolutamente incontro alle eventualità dell’avvenire. Quest’avvenire
sarà felice, riposando la nostra politica sulla giustizia, sull’amore della
libertà e della patria. (…) Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché
nel mentre che rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore
che da tante parti d’Italia si leva verso di Noi.”[18]
Dopo una serie di provocazioni messe in
opera dal Regno di Sardegna, la crisi diplomatica venutasi a creare tra
Piemonte e Austria si acuì. In aprile il governo imperiale inoltrò a quello
piemontese un ultimatum nel quale si intimava di interrompere immediatamente i
preparativi militari. Respinto l’ultimatum da parte del governo Cavour, i
soldati austriaci passarono il Ticino. Fu l’inizio della Seconda guerra
d’indipendenza. Firenze insorse, il granduca venne deposto e si chiese l’unione
con il Regno di Sardegna.
Maggio-giugno. Parma e Modena si ribellarono ai propri sovrani
e lo Stato pontificio conobbe un’ondata di moti patriottici. Si sollevarono
Bologna, la Romagna, le Marche e l’Umbria. In virtù del trattato di Plombières
l’armata francese scese in Italia, ricongiungendosi con le truppe sabaude. A
seguito della vittoria dei franco-piemontesi a Magenta avvennero i così detti
“ingressi trionfali” di Napoleone III e Vittorio Emanuele II a Milano. Dopo le
estenuanti battaglie di Solferino e San Martino, l’esercito austriaco era decimato
e abbattuto nel morale.
Luglio-agosto.
Napoleone III aprì
una trattativa con Francesco Giuseppe d’Austria per porre termine alla guerra.
I due imperatori si incontrarono a Villafranca tra l’11 e il 12 luglio e si
accordarono sui preliminari della pace, pur in assenza dei piemontesi. Cavour,
alla notizia della pace, vide crollare i suoi progetti e rassegnò le
dimissioni. A Zurigo si aprì la Conferenza di pace.
Settembre-ottobre.
A Modena, Parma,
Firenze, Bologna e nelle Romagne vennero elette assemblee che esprimevano il
rifiuto dei vecchi sovrani e l’auspicio dell’unione con il Regno di Sardegna.
Questa netta presa di posizione delle popolazioni dell’Italia centrale se da un
lato metteva in imbarazzo il governo sabaudo di fronte all’alleato francese, dall’altro
determinava, di fatto, il fallimento del tentativo bonapartista di determinare
gli equilibri politici della penisola.
Novembre-dicembre. Il 10 novembre la conferenza di pace di
Zurigo stabilì che la Lombardia venisse ceduta dall’Austria alla Francia e da questa
al Piemonte. Austria e Francia manifestarono inoltre il favore per la creazione
di una Confederazione italiana sotto la presidenza del Papa, stante il ritorno
dei legittimi sovrani sui troni dell’Italia centrale, ma il governo piemontese
non assunse impegni circa il trattato.
1860:
Vittorio Emanuele e Garibaldi a Teano
Gennaio-marzo. A seguito della crisi del governo
Rattazzi-La Marmora in Piemonte, Vittorio Emanuele II fu costretto a richiamare
Cavour. Nell’Italia centrale, intanto, si svolgevano i plebisciti per
l’annessione di queste regioni al Regno di Sardegna. I risultati, favorevoli,
vennero presentati al sovrano sabaudo. In cambio della benevolenza francese
circa le nuove annessioni piemontesi, la Savoia e la contea di Nizza, previo
plebiscito, furono cedute alla Francia.
Aprile-maggio.
Scoppiò a Palermo
un’insurrezione che, nonostante venisse repressa, annunciò una nuova
mobilitazione dei democratici. Il loro più illustre esponente, Giuseppe
Garibaldi, accettò di guidare una spedizione di volontari in aiuto dei
rivoltosi. Un migliaio di volontari (i Mille) partirono così da Quarto, in
Liguria, e sbarcarono a Marsala, dove Garibaldi assunse la dittatura dell’isola
per conto di Vittorio Emanuele. A Calatafimi i Mille sconfissero l’esercito borbonico
aprendosi la strada per Palermo.
Le gesta di Garibaldi in Sicilia vennero
impresse sotto forma di diario da Alexandre Dumas, il noto romanziere, che di
lui e dei garibaldini tracciò profili romantici, descrizioni che contribuirono
a divulgare nell’immaginario collettivo la leggenda dei mille. L’estratto che
segue si riferiva proprio alla battaglia di Calatafimi, nel momento decisivo:
“Garibaldi rimane solo in piedi tra i suoi
uomini stesi a terra; senza dubbio i napoletani l’hanno riconosciuto, perché
tutti i fuochi si concentrarono su di lui. Alcuni legionari si rialzano e
vogliono far scudo col loro corpo al Generale. - Via - dice Garibaldi, allontanandoli,
- non troverò mai migliore compagnia, né un giorno più bello per morire. Dopo
aver preso respiro un istante, i legionari si rialzano e caricano con nuovo
accanimento. (…) I napoletani, scacciati da tutte le posizioni, prese alla
baionetta una dopo l’altra, abbandonano infine il campo di battaglia e si
ritirano a Calatafimi.”[19]
Giugno-agosto. L’esercito borbonico a Milazzo perse, di
fatto, il controllo della Sicilia. L’improvviso collasso del vecchio regime
scatenò rivolte contadine che miravano alla ripartizione dei latifondi. Una
delle più cruente si verificò a Bronte. Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi,
venne inviato nel catanese per riportare la situazione sotto controllo. La repressione
della rivolta segnò la fine delle speranze di rinnovamento sociale che avevano
accompagnato l’arrivo dei garibaldini.
Settembre-dicembre.
Attraversato lo stretto
di Messina, i garibaldini (ormai ben più del migliaio iniziale) risalivano
rapidamente la penisola. Francesco II si rifugiò a Gaeta e Garibaldi entrò a
Napoli. Il suo esercito si preparava a resistere sul Volturno dove verrà ancora
una volta sconfitto dai garibaldini. Intanto, da nord, si mosse l’esercito
piemontese che, dopo aver battuto i pontifici a Castelfidardo, e aver preso
possesso delle regioni dell’Italia centrale, invase, a sua volta, il Regno
borbonico.
Novembre-dicembre. Mentre una serie di plebisciti
ufficializzavano l’unione delle regioni dell’Italia centrale (tranne il Lazio)
e meridionale al Regno di Sardegna, Garibaldi e Vittorio Emanuele II si
incontrarono a Teano. Il generale, poi, accompagnò il sovrano nel suo ingresso
a Napoli. Garibaldi, vistosi rifiutata la proposta di amministrare il Sud per
un anno, si ritirò a Caprera.
L’incontro di Teano fu descritto da Alberto
Mario, un patriota garibaldino ma vicino alle posizioni di Carlo Cattaneo, il
quale raccontava di quanto i contadini acclamassero Garibaldi e non riconoscessero
il re, creando anche un certo imbarazzo nell’eroe dei due mondi:
“In tanto strepito d’armi e corruscare di
spallini e ondeggiare di cimieri, i contadini accorrevano attoniti ad acclamare
Garibaldi. Dei due che precedevano, ignorando quale ei fosse, posero con
certezza gli occhi sul più bello. Garibaldi procacciava di deviare quegli
applausi sul re, e, trattenuto d’un passo il cavallo, inculcava loro con molta
intensità d’espressione: - Ecco Vittorio Emanuele, il re, il nostro re, il re
d’Italia; viva lui! I paesani tacevano e ascoltavano, ma non comprendendo
sillaba di tutto ciò, ripicchiavano il “Viva Galibardo!”[20]
L’Unificazione
Gennaio-marzo. Mentre terminava la resistenza di Francesco
II in Gaeta, si svolgevano le prime elezioni politiche nei territori appena
annessi al Piemonte. La grande maggioranza dei seggi fu a favore dei
cavouriani. Il 17 marzo venne promulgata una legge che attribuiva a Vittorio
Emanuele II il titolo di Re d’Italia.
Aprile-agosto.
Il primo governo
del neonato Regno fu presieduto da Cavour, il quale dichiarò la volontà
nazionale di avere Roma come Capitale, pur nel rispetto delle prerogative del
Papa e della sensibilità dell’alleato francese. Il Parlamento lasciò cadere un
progetto di riforma federalista delle istituzioni presentato da Marco
Minghetti. Mentre nel Sud iniziarono a essere numerose le azioni dei briganti.
Il 6 giugno Cavour morì a seguito della
malaria che lo aveva colpito nel mese di maggio.
Settembre-dicembre. Il fenomeno del brigantaggio divampò nelle
province meridionali. Il generale Cialdini, già luogotenente del Meridione,
venne sostituito dal generale La Marmora. Lo Stato italiano iniziò una
sanguinosa repressione delle bande di briganti che ricevevano le simpatie, i finanziamenti
e l’incoraggiamento della corte borbonica in esilio a Roma. Lo Stato
pontificio, a sua volta, offrì ai briganti asilo e copertura.
Il Risorgimento proseguì anche dopo
l’unificazione, in particolare con la Terza guerra d’indipendenza del 1866, a
seguito della quale l’Italia poté annettere il Veneto, con la agognata Venezia,
Mantova e parte del Friuli.
Per vedere Roma Capitale d’Italia bisognerà
però aspettare la così detta “Breccia di Porta Pia” del venti settembre 1870,
con cui si potrà considerare quasi concluso il progetto risorgimentale. In
effetti, il quasi, è la parola giusta, in quanto per compiere quella che veniva
considerata l’unificazione completa della Penisola bisognava aggiungere Trieste
ed i territori limitrofi, che saranno i principali oggetti del contendere durante
la Grande Guerra.
In conclusione, ritengo opportuno fare una
breve citazione della condizione delle donne, che nell’Italia unita non avevano
né voto né diritti civili equiparabili a quelli dell’uomo. Come è noto, prima
che certi passi si compiano del tutto bisognerà arrivare ai giorni nostri, ma
il tardo Risorgimento ci forniva nel parlamentare liberale Salvatore Morelli
l’esempio di un uomo avanti di un secolo. Il 18 giugno 1867 egli presentò alla
camera tre disegni di legge Per la
reintegrazione giuridica della donna, che, tuttavia, non vennero ammessi
alla lettura e nemmeno registrati tra i fascicoli degli archivi. Riportiamo qua
la parte finale del suo intervento:
“Riconoscendo alla donna identità di tipo e
facoltà eguali all’uomo, giustizia vuole che essa sia eguagliata al medesimo
nei diritti civili e politici. Quindi le donne italiane, dalla pubblicazione di
questa legge, sono facultate ad esercitare i diritti civili e politici nello
stesso modo e con le medesime condizioni che li esercitano gli altri cittadini
del regno d’Italia.”[21]
[1] Il concetto di nazionalizzazione
delle masse è stato introdotto da G.L. Mosse nel testo La
nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in
Germania (1815- 1933),
Bologna, Il Mulino, 2004
[2] Il pensatore espresse tale concetto nel testo Il
contratto sociale
[3] A. M. Banti, Sublime
madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza,
2011, p. 8
[4]
M. Girouard, The return to Camelot. Chivalry and the
english gentleman, Yale University Press,
New Haven and London, 1981
[5] D. Balestracci, Medioevo
e Risorgimento. L’invenzione dell’identità italiana nell’Ottocento, Bologna, il Mulino,
2015
[6] Mario Fubini, Un
mito del Risorgimento: la lega lombarda, in Id., Romanticismo italiano, Laterza,
Roma-Bari 1973
[7] Il riassunto degli
avvenimenti storici che seguono, dagli albori del Risorgimento fino alla
conclusione del racconto, è principalmente ricavato dalla lettura dei seguenti
testi e siti internet: A. M. Banti, Sublime madre nostra. La nazione
italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2011; A. M. Banti, Il
Risorgimento italiano,
Roma- Bari, Laterza, 2004; A. M. Banti (a cura di), Nel nome dell’Italia. Il Risorgimento
nelle testimonianze, nei documenti e nelle immagini, Roma- Bari, Laterza,
2010; M. Rapport, 1848. L’anno della Rivoluzione, Roma- Bari, Laterza,
2009; L. Villari, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, Roma- Bari, Laterza,
2009; <150anni-lanostrastoria.it>.
[8] Decreto di adozione del
Tricolore italiano da parte della Repubblica Cispadana.
[9] A.M. Banti, Il Risorgimento italiano, Roma-Bari, Laterza,
2004, p. 12
[10] A. Herzen, Il
passato e i pensieri,
Torino, Einaudi- Gallimard, 1996, p. 728
[11] A. Manzoni, Tutte
le poesie 1797- 1872,
G. Lonardi e P. Azzolini (a cura di), Venezia, 1992, p. 200
[12] V. Gioberti, Del
primato morale e civile degli italiani, 1843, vol. 1, pp. 15-16
[13] L. Villari, Bella
e perduta. L’Italia del Risorgimento, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 129
[15] A cura della reale
commissione, “Scritti e discorsi politici e militari.
Volume 1 (1838-1861),
in Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi. Volume IV, Bologna, L. Cappelli
Editore, 1934, pp. 91-92
[16] C. Benso di Cavour, Discorsi
parlamentari,
vol. XI, a cura di A. Saitta, Firenze, 1957, pp. 269-270
[17] F. Della Peruta (a cura
di), Scrittori politici dell’Ottocento, vol. I, Giuseppe Mazzini e i democratici, Milano-Napoli, 1969,
pp. 1249-1252
[18] Discorsi
di Vittorio Emanuele II re d’Italia al parlamento nazionale e proclami di lui
all’esercito,
Roma, 1878, pp. 37-39
[19] A. Dumas, I
garibaldini: rivoluzione di Sicilia e di Napoli, Milano, 1927, pp. 69-74
[20] A. Mario, La
camicia rossa,
di C. Spellanzon (a cura di), Milano, 1954, pp. 156-157
[21] G. Conti Odorisio (a cura di), Salvatore
Morelli: politica e questione femminile, Roma, 1990, p. 43