Il Natale e le festività sono l’occasione per riflettere sul significato dell’amore. Voglio farlo anch’io e, nel breve spazio di queste righe, lo faccio parlando di due grandi letterati della nostra storia.
Il primo è Dante Alighieri, sia perché sono i 700 anni dalla sua morte, sia perché non esiste amore in letteratura senza che da lui si passi.
Ci immergiamo nel canto V dell’Inferno, quando Dante passa dal primo al secondo cerchio; meno spazioso è il luogo più forte è la sofferenza dei dannati. In questo cerchio c’è Minosse che precipita nel baratro infernale le anime dei dannati, che qui lo sono per amore. Prima avviene l’incontro con Semiramide, la quale rappresenta l’amore come necessità “satanica” di sincerità. Poi con Didone, che per Enea si distacca da ogni vincolo morale. Dunque, con Cleopatra, dove l’amore si fa arte di seduzione. Quindi con Elena e Paride, in cui il desiderio della bellezza porta infedeltà, desolazione e rovine dei popoli. Poi Achille, per il quale il sentimento va oltre l’eroismo. E ancora Tristano, l’amore che allontana dal reale e chiude l’essere umano in solitudine. Infine, con Paolo e Francesca, che dell’amore sono essenza nei secoli.
La storia dei due amanti ci è nota. La loro passione scoppiò nel castello di Gradara mentre leggevano il romanzo Lancillotto e Ginevra, ma qualcuno li osservò di nascosto e riferì l’accaduto al marito di lei. Gianciotto (questo era il nome del marito), podestà di Pesaro, finse di recarsi nella città marchigiana invece si nascose nella rocca per sorprendere gli amanti e ucciderli. Paolo provò a scappare attraverso una botola, ma rimase impigliato col mantello. Francesca lo difese col suo corpo dalla spada del marito e morirono entrambi sotto lo stesso fendente. Perché questo episodio è così eccezionale? Perché rappresenta l’amore trascinante sopra ogni cosa, che spinge all’estremo per la difesa dell’altro. Quello di Francesca è amore altruistico fino alla morte. Francesca che ci racconta Dante è donna autentica, la prima donna non mitologica, ma vera, apparsa sull’orizzonte poetico. E’ l’amore umano, frangibile, appassionato, che genera profondi contrasti e irresistibili emozioni.
Il secondo paradigma è la storia di Orfeo e Euridice, ma non nella forma classica, bensì come lo interpreta Cesare Pavese.
Secondo il mito greco Orfeo, figlio di Apollo e di Calliope, era il più incantevole dei musicisti e dei poeti. Tutte le donne lo adoravano, ma lui non aveva occhi che per la bellissima Euridice, figlia di Nereo e Doride, e la sposò. Ma la loro felicità durò poco perché Euridice morì giovane per via del morso di un serpente, che la colse nella fuga da Aristeo che di lei si era innamorato senza essere ricambiato. Orfeo, non potendo sopportare la perdita, decise di entrare nell’oltretomba per riportarla con sé. Così, con musica e poesia convinse Caronte a traghettarlo e Ade ad aprigli le porte per riprendere Euridice, a patto che nel riportarla fuori dall’inferno non si girasse a guardarla. Orfeo prese per mano la sposa, ma nel cammino verso la terra non seppe resistere e si voltò per vederne la bellezza, così ella scomparve e lui la perse per sempre. Il poeta visse il resto della sua vita nel tormento, tentò anche di ritornare negli inferi per ritrovarla, ma senza riuscirci.
Pavese rovescia il significato di quanto accadde. Secondo lo scrittore piemontese Orfeo non commise un errore nel voltarsi verso Euridice, e nemmeno si trattò di una fatalità, fu una scelta meditata e consapevole. Lo scrive ne I dialoghi con Leucò del 1947, nel dialogo L’inconsolabile, dove a confrontarsi sono Orfeo e Bacca, una baccante. Orfeo così racconta la propria esperienza: “E’ andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscio del passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Vale la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolio, come d’un topo che si salva. (…) Euridice morendo divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade, non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo. ”
Pavese, in ultima analisi, ci dice che in amore non si cerca che se stessi od un proprio completamento.
Ho raccontato queste due storie, credo perlopiù note al grande pubblico, perché anche l’amore è categoria del politico e, ancor di più, del politico che, in tempo di pandemia, si incontra col Natale. In questo lungo periodo di frustrazione collettiva, di generale impazienza, dove abbiamo perso persone care e vissuto drammi e difficoltà di ogni tipo, anche economiche, in cui troppo spesso trionfano solitudine e individualismo, riscoprire l’amore più alto, in tutte le sue forme, può essere motivo di salvezza. Non parlo di salvezza singola ma di un sentimento collettivo, di solidarietà, di amore appunto, che anche nel piccolo delle nostre comunità possiamo condividere.
Pensiamo al Presepe, rappresentazione principe in tutti i nostri luoghi, che nella sua storia racconta tutto l’amore del mondo. C’è Maria, con la sua fede incondizionata, donna d’amore e di piena consapevolezza della sua missione. C’è Giuseppe, che si fida di lei, si affida completamente a Dio e cresce Gesù sulla terra sapendo che è sovrainteso dall’assoluto ultraterreno. C’è Gesù, il bambino che si svela al mondo, che è amore, tenerezza, salvezza. Ci sono i Re Magi, guidati dalla Stella Cometa, che rappresentano, nella loro diversità, l’amore che popoli, etnie e culture diverse possono condividere per uno scopo più grande. C’è la vicenda di emigrati respinti, che attorno all’amore costruiscono, nella mangiatoia, un sentimento universale da donare all’umanità.
Quest’anno, nel pezzo di Natale e di tutte le feste, ho deciso di non parlare di opere pubbliche e nemmeno di inutili polemiche, ma di amore, l’unico sentimento, in tutte le sue alte forme, in grado di unirci, liberarci, farci sentire fratelli. È vero, non siamo più nella fase pandemica del “andrà tutto bene, ne usciremo migliori”, siamo ancora in un contesto difficile, ma guai ad abbandonare la speranza, che dell’amore è sana portatrice.
A dire il vero, però, quanto accaduto al piccolo Martino di Valdottavo, di due mesi soltanto, la speranza ce l’ha tolta a tutti, almeno per un periodo. Tutta la comunità è sconvolta, vicina ad un dolore familiare di cui nessuno può sapere fino in fondo, a cui bisogna essere vicini e del quale bisogna avere rispetto. Nella tragedia terrena, inspiegabile e per la quale non vi è alcuna consolazione, sopraggiunge, deve sopraggiungere, la speranza, anzi la certezza, che il bambino, nel Natale, sia presso l’amore di Dio ad illuminarci con il suo amore puro. Nel saperlo lì, noi tutti ci appelliamo ancora all’amore e alla speranza che oltre la vita, oltre l’umano sensibile, vi sia qualcosa di più alto e, oggi inafferrabile, che un domani sarà nostro con pienezza. Abbiamo un piccolo angelo, una luminosa stella, che può indicarci la via.
Nell’augurarvi Buon Natale (sì, si può dire) e felice anno nuovo condivido con voi l’ultima, celeberrima, terzina di Dante nel Paradiso, che dell’amore che incontra il Divino è massimo emblema: “A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle.”